Ma soprattutto fantasticando sulla sua imminente perdita e persino sui suoi funerali, cominciai ad avere una maggiore consapevolezza di me, delle mie paure e delle mie sensazioni: oltre ad elaborare la morte di mia madre fu inevitabile ammettere che "allora anch'io potevo morire".
Solo più tardi mi sarei reso conto del valore di tale acquisizione.
Quando, per la prima volta, varcai la soglia di Attivecomeprima, sapevo già cosa cercare. Non conoscevo questi "esseri" che, in un'epoca in cui il cancro era qualche cosa di cui ci si doveva vergognare, chiamavano a raccolta altre donne di pari condizioni.
Ho conosciuto Rita, bionda, giovane, carina. Sorrideva sempre, registrava i miei incontri del venerdì con le donne operate e dopo tre quattro giorni mi faceva pervenire un plico di cartelle dattiloscritte, con le infuocate osservazioni sulle cose dette da me e che l'avevano spaventata.
Dopo alcuni anni, quando ormai avevo deciso di occuparmi d'altro, Rita mi aiutò ad uscire dalla crisi, riducendo le cartelle dattiloscritte a pochi fogli, restituendomi la consapevolezza di avere imparato molto sulla vera natura della professione medica.
Anna, operata da me e relegata inconsciamente dal mio modo oggettivo di concepire il cancro, tra le donne destinate a morire in breve tempo, presentava una prognosi infausta: questa però era solo la "mia" verità assoluta, quella biologica, che veniva desunta da un certo numero di elementi che erano stati studiati statisticamente, anche se ve ne erano altri ugualmente importanti, neanche oggi sufficientemente conosciuti.
Essa, sin dal primo giorno, aveva richiesto la mia attenzione occupandosi poco delle mie verità oggettive, che venivano annualmente smentite e commentate da lei con un grande senso di umorismo.
Per dodici anni, mentre ero portato a vedere solo la sua malattia, Anna mi spiegava pazientemente che questa rappresentava solo uno degli aspetti della sua persona e della sua vita.
Inevitabilmente ogni conversazione, sempre più rara sulla sua malattia (cellule, recidive, metastasi...) si spostava automaticamente su alcuni aspetti soggettivi: paure, sensazioni, problemi familiari e... il suo cane.
Dopo Anna, centinaia, forse migliaia di altre pazienti, hanno arricchito la mia esistenza grazie alla trasmissione della loro saggezza nell'esperienza derivata dalla malattia. Parecchie di loro lo hanno fatto per iscritto, dandomi la possibilità di raccogliere molte delle loro osservazioni in un volume ("Carcinoma mammario dalla parte della paziente" 1989).
Conservo per me, invece, alcune lettere di familiari di pazienti decedute, che mi provocano ancora una emozione indescrivibile: loro ed io sappiamo bene, che paziente e medico hanno fatto del loro meglio e la morte non rappresenta una sconfitta o il fallimento di una cura.
Essere rassicurati dalla comprensione dei familiari non è privilegio di poco conto, se pensiamo al ruolo tradizionale del medico, caratterizzato da un esasperato senso del dovere, che è causa di continui dubbi e che porta a sentirsi responsabili al di là delle possibilità umane e, parafrasando Larry Leshan "a giocare a fare i padreterni senza averne le qualità".

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